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IL SOGGETTO NON ESISTE. In morte di Elisabetta II
Una premessa: ho aspettato qualche giorno per parlare della morte della Regina del Regno Unito Elisabetta II, per poter raccogliere i pensieri e mettere distanza tra me e gli eventi storici che ci accadono intorno (ché di Storia senza dubbio stiamo parlando). Dopodiché era d’obbligo riattivare il blog (che funziona solo quando è necessario dire qualcosa, e non per parlare a vuoto come va di moda oggi) non tanto per unirmi al coro di condoglianze e sofferenza per la perdita enorme che la Monarchia europea ha subito in questi giorni, quanto per elaborare un pensiero su una figura tanto amata e controversa e su alcune reazioni – senza dubbio superficiali ma non di meno rilevanti anche solo per la capillarità – che ne hanno accolto la dipartita.
Le numerose accuse personali, da quella di essere una nostalgica e/o perpetuatrice del colonialismo a quella di essere anaffettiva e di aver “lasciato morire lady D” (qualunque cosa ciò significhi) non solo sono indebitamente false ma non colgono nel segno del personaggio sia pubblico sia istituzionale che è stata la defunta Regina.
La Regina non è una persona se non accidentalmente. Essa è un simbolo, è la personificazione della Corona. È ad essa e solo ad essa che i sudditi, i famigliari e la (persona sotto la) Regina stessa devono/dovevano la loro completa fiducia e sottomissione. Adesso la Corona è personificata in un altro individuo, Re Carlo III, e, anche in questo caso, giudizi sul suo operato precedente e considerazioni personali nulla hanno a che fare con essa.
La Corona ha tra i propri sudditi i suoi stessi figli e genitori, i suoi mentori e le sue nemesi, chi la sostiene e chi vorrebbe abbatterla. E nei confronti di ognuno di loro è neutrale e rispettosa fintanto che tale rispetto non ne infici l’imparzialità o il decoro. Elisabetta II ha saputo incarnare alla perfezione queste caratteristiche della Corona in quanto istituzione astratta e trascendente.
Per tornare alle due accuse più “gravi”: è stata neutrale e al contempo rispettosa delle ex colonie fintanto che era possibile e consono al suo ruolo e ha dato una centralità al Commonwealth che nessun altro sovrano avrebbe dato; e nondimeno era la centralità che era giusto la Corona desse, né un passo in più né uno in meno. Uno dei tanti esempi di equilibrio certosino e parsimonioso che ha costellato il suo intero Regno.
La Corona rispetta ma non abbraccia né deve farlo, né mostra più dell’affetto minimo che si confà al suo ruolo. Così è con i parenti di sangue, a maggior ragione con quelli acquisiti (tanto per risolvere subito la questione Diana). E suo compito è porre avanti alle simpatie e alle idiosincrasie, e persino ai sentimenti e ai problemi del prossimo, la stabilità dell’istituzione e dei suoi obiettivi. Per una istituzione monarchica formare una famiglia è un compito statale non affettivo.
La soggettività dietro la Corona deve necessariamente sparire, devono sparire le sue opinioni, i suoi affetti, la sua logica e i suoi ragionamenti. In un’epoca di empatia forse eccessiva e soggettività esasperata e paradossalmente alienante la Corona – ed Elisabetta II in particolar modo – è la quintessenza della rinuncia alla soggettività, al punto di vista. Per questo non hanno alcun senso le accuse alla persona o le considerazioni sull’operato a meno che non siano strettamente connesse agli obiettivi istituzionali e costituzionali. La domanda non è: colui o colei che hanno incarnato la Corona sono stati buoni, gentili, giusti, corretti? La domanda è: nel loro operato hanno mantenuto salda l’istituzione e quindi la Corona? Questo certo può avvenire anche a discapito di alcune sacche del Paese, ma non è nulla di diverso dalle decisioni necessariamente non plebiscitarie che può prendere un qualunque governo.
Forse bisogna tornare a Machiavelli e ricordare che un Principe non va giudicato moralmente, e provare a modernizzare tale idea. Se un Principe è un capo del governo l’elemento morale è rilevante (a meno che non si parli di morale strettamente privata). Ma la Corona non è una persona né un esecutivo, è un simbolo, un oggetto dietro il quale qualunque soggetto ne porti l’onere sparisce. È possibile per un essere umano farlo? È molto difficile. Per questo va ammirato chi ci è riuscito quasi alla perfezione per oltre 70 anni senza mai desistere in modo vistoso, e anzi concedendo alcune fuoriuscite da tale fredda missione quando era necessario mandare un messaggio (altrettanto simbolico) al Paese, e quindi in definitiva violando i dettami della Corona salvaguardo la Corona e in fondo anche lo spirito (se non la lettera) del dettame stesso.
L’attuale Re Carlo III, che più di tutti nella casata Windsor (Sassonia-Coburgo-Gotha) si è speso per una personalizzazione (e quindi modernizzazione, come piace al nostro blog) dei compiti monarchici, ha iniziato nel segno della totale continuità col precedente sovrano per quanto riguarda la sobrietà e la distanza della Corona, almeno stando al primo discorso ai sudditi, con alcune giuste deviazioni (come le parole in gaelico e l’inclusività 1) che ora sono norme, in quanto voci della Corona.
Dietro le nostre nozioni sociali più consolidate (libertà, uguaglianza, autonomia…), vigila una nozione ulteriore, quella di “io”, tutt’altro che scontata dal punto di vista filosofico. La Monarchia – tra i suoi mille pregi e difetti – serve anche a questo: ricordarci che, forse, con buona pace di tutti, il soggetto non esiste.
NOTE:
1 “Ovunque tu possa vivere nel Regno Unito o nei regni e nei territori di tutto il mondo, e qualunque sia il tuo background o le tue convinzioni, cercherò di servirti con lealtà rispetto e amore…”
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QUOD ERAT DEMONSTRANDUM. La paura Reale delle parole
Come breve corollario alla prima riflessione di questo blog, commento un articolo di HuffPostUK [QUI], che mostra la correttezza delle osservazioni fatte. La traduzione è mia:
La regina Elisabetta ha ribadito l’impegno di una vita al servizio [del suo paese] nel messaggio del Commonwealth Day di lunedì, pochi giorni dopo aver rivelato che non avrebbe partecipato di persona al servizio reale di a causa di problemi di salute.
“Nell’anno del mio Giubileo di Platino, ho avuto il piacere di rinnovare la promessa che ho fatto nel 1947, che la mia vita sarà sempre dedicata al Servizio” […] “Oggi è gratificante osservare un Commonwealth moderno, vivace e connesso che combina una ricchezza di storia e tradizione con i grandi progressi sociali, culturali e tecnologici del nostro tempo”. […] La festa di lunedì ha lo scopo di celebrare il Commonwealth, un’associazione di 54 paesi, la maggior parte dei quali ex colonie britanniche. Elisabetta è il capo di stato formale in 15 nazioni del Commonwealth, tra cui Canada, Australia, Giamaica e Bahamas. […] Dopo aver discusso gli accordi con la Casa Reale, la Regina ha chiesto al Principe di Galles di rappresentare Sua Maestà al Commonwealth Service presso l’Abbazia di Westminster lunedì”, si legge nella dichiarazione che annuncia la “cancellazione” della Regina.
In sintesi i due fatti rilevanti, già riportati da mezza stampa italiana e internazionale: la Regina non si muoverà dal Castello di Windsor, ergo non risiederà più a Buckhingham Palace, luogo deputato alle mansioni “statali” del monarca inglese; e non presiederà alle Celebrazioni per l’Anniversario della Costituzione del Commonwealth, istituto centrale del suo Regno, come lo era stato per il Regno del padre Giorgio VI.
Considerato che quest’anno si tiene l’importante Giubileo che vede Elisabetta II festeggiare i 70 anni di Regno ci si chiede se sia addirittura possibile l’assenza della “festeggiata” causa problemi di salute; perfino un commentatore vicino alle faccende Reali come Robert Jobson sta avanzando scetticismo verso la possibilità di rivedere la Regina in occasioni pubbliche. A mio parere un monarca che non può presenziare un tale evento sta firmando mestamente la fine del suo compito.
Nel documento ufficiale riportato da tutti i giornali la Regina ha poi ricordato lo storico discorso del 1947, testo chiave della deontologia del suo Regno, come facevo notare settimana scorsa. Ribadendo perciò il mantenimento formale delle sue funzioni fino alla morte, con ancora lo spettro della vergogna dello zio.
Ciononostante il Principe del Galles è finalmente diventato “Lettore Numero 2” dei documenti governativi (dopo la madre), quindi ha assunto parte del ruolo sostanziale, sempre in secondo piano cosicché non si pensi che la Regina stia abiurando alle sue mansioni. Questo dimostra ancor più che, anche quando in extremis la Royal Family decide di rendere partecipe l’erede legittimo in maniera meno formale e più sostanziale, la parola “abdicazione” è da considerarsi blasfema così come l’atto concreto.
C’è da dire che delegando parte delle funzioni “sostanziali” e gran parte di quelle simboliche, compresi eventi fondamentali come il Commonwealth Day, quella che si configura è una abdicazione de facto e non de iure, simile a quella del Liechtenstein, ma senza che sia data all’erede primo in linea di successione la possibilità di convenire col Primo Ministro o – come è avvenuto pochi giorni fa a Windsor – col presidente dell’Australia. L’erede presenzia alle cerimonie simboliche, che però sono tutto ciò che rimane delle funzioni monarchiche, senza che “simbolicamente” si possa nominare l’atto della abdicazione, in una specie di cortocircuito meta-simbolico. Discuterò altrove come questa sia una delle spine nel fianco di qualunque monarchia voglia dirsi “moderna”.
Come coniugare una necessaria “forza” dell’istituto monarchico con una parziale rivisitazione del suo apparato simbolico, vestigia solo in parte da preservare, è tema complesso che verrà trattato in futuro.
Tuttavia ci chiediamo, assistendo all’attuale passaggio di consegne britannico, cosa cambi rispetto all’abdicazione vera e propria, così come attuata nel resto delle monarchie europee. La casa reale inglese prende i simboli così sul serio da contraddirli nella prassi pur di mantenerne la lettera.
Sembra sia ancora all’opera, silente e molesta, la paura di quella maledetta parola.
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LA MALEDETTA ABDICAZIONE. L’ottusità Windsor e la crisi ucraina
Inauguriamo questo piccolo spazio di deviazione monarchica dal dibattito politico internazionale, rimanendo sull’evento chiave del presente momento storico: la crisi ucraina. All’apparenza esso sembrerebbe avere nulla a che fare con una riflessione sulla modernità e il destino delle monarchie europee (topic del blog). Nonostante ciò riflettere su un singolo ma rilevante aspetto di una monarchia famosa e prestigiosa come quella britannica, può rivelarsi un elemento utile per inquadrare crisi future (come sempre più ne riserva il nostro tempo) nell’ottica di una teoria moderna della monarchia.
La combattività che ha dimostrato il Primo Ministro Boris Johnson nei confronti dell’invasione dell’Ucraina da parte del dittatore russo è tipica della cultura degli UK. Sovente tale combattività viene ricordata in riferimento alla tenacia di Winston Churchill nel portare l’Europa alla vittoria contro il nazifascismo, ma essa è costitutiva del sostrato culturale del popolo anglosassone.1
Tale caratteristica sarebbe probabilmente meglio incanalata in una forma di stato presidenziale o semipresidenziale, dove per “meglio incanalata” intendo “efficacemente e celermente messa in pratica”. Oppure necessiterebbe di una monarchia parlamentare – esattamente come quella attuale – il cui Monarca fosse giovane e in pieno vigore. Per quanto, com’è noto, il Re è una figura di garanzia, una carica simbolica esattamente come il nostro Presidente della Repubblica, ciò non toglie che ogni azione dell’esecutivo debba in ultima istanza essere da Egli approvata e che il Primo Ministro debba consultarsi col suo Capo di Stato prima di agire, o prima di decidere che direzione dare alle iniziative del Governo. Inoltre il Re rimane pur sempre il Comandante in Capo delle Forze Armate.
La Regina Elisabetta II, che incarna uno dei Regni più longevi e rappresentativi della Storia non solo inglese, è di recente in non floride condizioni di salute, a causa sia della positività al Covid-19 che della avanzata età (96 anni). E ha dovuto rimandare più di una volta il colloquio settimanale col suo Primo Ministro,2 nel bel mezzo di una profonda crisi europea, come negli ultimi decenni raramente il Vecchio Continente ha dovuto affrontare. Il Regno Unito, in piena crisi bellica, si ritrova ad avere come Capo di Stato e Comandante dell’Esercito una signora malata e prossima al secolo di vita. Avrebbe invece bisogno di un giovane e vigoroso Monarca.
Si dirà che carattere principale della Monarchia è quello di possedere un Capo di Stato che mantiene la sua carica fino alla morte, ergo sembrerebbe non sia possibile rimediare al problema che sto esponendo.
Negli ultimi anni è invalso il costume per molti monarchi europei di abdicare in favore dei legittimi eredi, adducendo come motivazione implicita o esplicita i sopraggiunti limiti di età, a prescindere dalle proprie condizioni di salute.
A fare da apripista è stato il Granducato di Lussemburgo il 7 Ottobre del 2000 quando il Granduca Giovanni all’età di 79 anni ha abdicato in favore del figlio Enrico di 45 (Giovanni sarebbe poi morto nel 2019). L’attuale Re dei Paesi Bassi Guglielmo ha ereditato il trono il 30 Aprile 2013 all’età di 46 anni, in seguito all’abdicazione della madre Beatrice, nata nel 1938 e tuttora vivente (la più giovane ad abdicare in questo secolo). Nello stesso anno, il 21 Luglio, il Re del Belgio Alberto II di 79 anni abdicava lasciando il trono al figlio Filippo di 53. Infine il 18 Giugno 2014 Juan Carlos I di Spagna, settantaseienne, lascia il trono a Filippo VI, quarantaseienne.
Caso meno incisivo per la tesi che voglio dimostrare è quello del Principato di Monaco: il principe Alberto II ebbe la reggenza poco prima della morte del padre Ranieri III, perché quest’ultimo era già in cattive condizioni di salute.
Il Re di Svezia Carlo XVI si avvicina ai 77 anni e non è da escludere faccia la medesima scelta delle monarchie appena citate, accompagnando al trono la giovane figlia Vittoria.
Caso singolare è quello del Liechtenstein. Essendo una Monarchia costituzionale e non parlamentare come le altre citate, il Liechtenstein è un principato in cui il Sovrano esercita un maggiore potere rispetto agli standard europei, limitato tuttavia da una Costituzione, che peraltro l’attuale Principe Giovanni Adamo II ha coraggiosamente posto a referendum, facendo decidere ai cittadini come e quanto limitare i suoi stessi poteri. Il Principe, però, dopo aver svolto le sue funzioni esecutive per quindici anni, ha ceduto il potere ordinario al figlio Luigi nel 2004, quando aveva solo 59 anni, mantenendo per sé solamente la carica simbolica. Suo padre, il Principe Francesco Giuseppe II, gli aveva peraltro lasciato la reggenza fin dal 1984, e quindi il Liechtenstein contempla una tradizione consolidata in proposito. Implicitamente Giovanni Adamo, raffinato analista politico e autore di un trattato dal titolo Lo Stato nel Terzo Millennio, riconosce l’importanza di svecchiare una carica così rilevante come quella del Monarca, coniugando la fedeltà alla tradizione e il diritto regnante di nascita tipici monarchici, con una concezione più flessibile e dinamica dei ruoli di potere.
La mia impressione è che il costume appena descritto, che presumibilmente si estenderà alle rimanenti monarchie europee e verrà ulteriormente applicato dalle nuove generazioni, voglia incentivare una visione della figura del Re che la assimila ancor più a quella del Presidente della Repubblica nelle Repubbliche Parlamentari. Una figura di garanzia, indice sia di stabilità che di dinamicità del paese, pronta ad affrontare un periodo storico in cui rimanere stabili significa innanzitutto rimanere al passo coi tempi. Si ritiene, in sostanza, che il proprio ruolo possa essere svolto meglio non fino alla morte ma fino a quando si possa garantire il pieno delle proprie facoltà fisiche e mentali. Al contempo senza rinunciare all’esperienza, di sicuro decennale (visto l’aumento della vita media) che un monarca ha dei propri compiti, nonché all’educazione che, fin dall’infanzia, riceve per poterli adeguatamente portare a termine. Infine i nuovi Re e Regine agli albori dei propri Regni potrebbero beneficiare in questo modo dell’appoggio, del sostegno e del consiglio dei precedenti sovrani, ancora in vita.
L’istituto della abdicazione, a mio parere, sta contribuendo a traghettare la Monarchia verso la modernità, impedendole di soccombervi.
(Faccio notare, per inciso, che perfino l’unica Monarchia Assoluta tuttora presente in Europa, Città del Vaticano, ha visto una abdicazione nel nuovo secolo: il passaggio da Benedetto XVI all’attuale Pontefice.)
La ritrosia della famiglia Windsor verso le abdicazioni proviene – com’è noto – dalle vicende che coinvolsero Re Edoardo VIII, zio dell’attuale Regina. Edoardo VIII regnò dal 20 Gennaio all’11 Dicembre 1936, uno dei regni più brevi della storia inglese, al seguito della morte del padre Giorgio V, e abdicò per poter sposare la pluridivorziata (e, si seppe in seguito, amante di Goebbels) Wallis Simpson. Il matrimonio non piaceva alla famiglia Reale, ed era sconveniente sotto tutti i punti di vista. La scienza esatta del senno di poi ci fa anche presumere che, qualora la Simpson fosse diventata regina, viste le simpatie naziste della coppia, la posizione del Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale sarebbe stata diversa da quella che la Storia ci ha consegnato.
La costanza dei Windsor nel badare al proprio ruolo simbolico con estrema serietà e senso del dovere (e che fu all’origine della creazione ex novo del cognome regnante) venne messa in crisi dalla decisione “egoistica” e individualistica di Edoardo. L’abdicazione venne letta da allora come una grave defezione. Sia Giorgio VI che Elisabetta II radicalizzarono ulteriormente la deontologia monarchica del Casato, se così si può dire.
Questa in breve la banale ragione per cui la famiglia regnante inglese non ha mai preso in considerazione l’idea di una abdicazione, e la Regina è intenzionata a servire il suo popolo fino a morte sopraggiunta, come promise con fermezza in un famoso discorso alla Radio quando era ancora principessa ereditaria nel 1947.
Se facciamo la media aritmetica delle età alle quali i monarchi europei post-2000 hanno abdicato, escludendo i casi particolari del Liechtenstein e di Monaco, otteniamo 77,25. Arrotondiamo per eccesso, per essere generosi, e diciamo che l’età media di abdicazione si posiziona intorno ai 78 anni di età.3 La Regina Elisabetta avrebbe quindi potuto abdicare già nel 2004, e saremmo addirittura vicini al termine di scadenza del regno di Carlo.
Non dimentichiamo, infine, il ruolo pionieristico che la famiglia reale inglese ha mantenuto fin dai primi del ‘900 nell’accompagnare l’istituto monarchico nell’Europa moderna, al netto di balzi e deviazioni estemporanee. In una linea temporale meno succube dei traumi del passato Elisabetta avrebbe potuto cedere il trono al figlio già negli anni ‘90, e inaugurare la tradizione ben prima del Lussemburgo. Saremmo probabilmente già nel regno di Guglielmo V (assumendo che William mantenga il nome).
Ma così non è stato. I Windsor vorranno mantenersi a distanza da questo habitus almeno per un’altra generazione, e ho mostrato come questo approccio sostanzialmente retrivo possa incidere su situazioni di crisi come la presente, nonostante dalla verve di BJ si possa desumere che UK voglia avere un ruolo aggressivo e protagonista in merito alla terribile vicenda della invasione dell’Ucraina.
I Windsor in definitiva dovrebbero rivedere la propria idea di abdicazione che, utilizzata come strumento di stabilità, è l’opposto di quella che fu (o che venne letta essere) al tempo di Edoardo VIII.
Magari le prossime generazioni, lontane dal trauma interno che pare aver vissuto il resto della famiglia all’epoca, non condivideranno la medesima strategia politica (ché di ciò si tratta).
Ce lo auguriamo, perché l’Europa necessita di Monarchie moderne.
NOTE:
1 Una panoramica classica della storia del paese è quella del Trevelyan (ed. it.: Storia d’Inghilterra, Garzanti, 1986) ma si può avere una chiara idea dello spirito anglosassone, sostanzialmente battagliero se non “guerrafondaio”, anche in opere più recenti (M. Fforde, Storia della Gran Bretagna (1832-1992), Laterza 2002) o addirittura consultando direttamente l’impostazione storiografica del noto primo ministro (W. Churchill, A History of the English-Speaking People, 4 voll, Cassell 1956-58).
2 Per fortuna da qualche giorno tutto si è ristabilito, e sono riprese le udienze virtuali. Nondimeno il mio argomento regge, e rischia di doversi rivelare attinente ancora in futuro.
3 Voglio specificare che, sempre considerando gli esempi presi in esame, tale numero prescinde dalla durata del regno. È un limite di età del regnante e non di totale di anni regnati.
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